sabato, Aprile 19, 2025
0,00 EUR

Nessun prodotto nel carrello.

Saul Leiter

Saul Leiter nacque il 3 dicembre 1923 a Pittsburgh, in Pennsylvania, in una famiglia ebraica osservante. Suo padre era un rabbino, studioso di teologia talmudica e figura di grande autorità nel mondo religioso. Fin dalla giovane età, Saul fu destinato a seguire le orme del padre, iscrivendosi a una scuola rabbinica. Tuttavia, la sua inclinazione per le arti visive e la pittura emerse molto presto, tanto da spingerlo, all’età di soli 23 anni, ad abbandonare il percorso religioso per trasferirsi a New York, città nella quale avrebbe vissuto per il resto della sua vita.

In quegli anni New York era un crocevia culturale in fermento. La scena artistica era in piena trasformazione, con l’affermazione dell’Espressionismo Astratto, l’ascesa della fotografia come linguaggio artistico e la nascita delle prime riviste di moda che avrebbero ridefinito il gusto visivo del dopoguerra. Leiter arrivò in città con il desiderio di diventare pittore. Studiò con Richard Pousette-Dart, pittore e fotografo appartenente alla New York School, che lo incoraggiò a esplorare la fotografia come mezzo espressivo. Nel frattempo frequentava l’Art Students League, dove cominciò a sperimentare tecniche miste tra pittura e fotografia, sempre in bilico tra i due linguaggi.

La fotografia per Leiter divenne presto qualcosa di più di un esercizio. La possibilità di catturare frammenti di realtà e trasformarli in visioni personali lo affascinava. Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta, acquistò una Leica e cominciò a scattare nelle strade dell’East Village e del Greenwich Village. All’epoca, la fotografia di strada era dominata dal bianco e nero, considerato più “serio” e adatto al reportage. Leiter andò in direzione opposta: iniziò a utilizzare pellicole a colori, soprattutto la Kodachrome da 35 mm, con cui realizzò immagini straordinarie, capaci di unire astrazione pittorica e documentazione urbana.

Il colore, per lui, non era solo un elemento decorativo ma una materia espressiva autonoma. Usava toni smorzati, pastello, talvolta ottenuti anche da pellicole scadute che contribuivano a conferire alle immagini un aspetto sognante e malinconico. Leiter si serviva della luce riflessa sui vetri, degli ombrelli bagnati dalla pioggia, delle vetrine appannate, dei riflessi sulle carrozzerie per costruire una fotografia che sfumava i confini tra figurazione e astrazione. Il soggetto diventava spesso indistinto, decentrato o parzialmente nascosto da elementi del primo piano, come cornici di finestre, vetri sporchi, ombre profonde. Questa grammatica compositiva trovava ispirazione tanto nella pittura moderna quanto nella poesia giapponese, e restituiva un’immagine del mondo intima, lirica, distante anni luce dall’enfasi drammatica del fotogiornalismo contemporaneo.

Durante gli anni Cinquanta, Leiter si affermò anche nel mondo della fotografia di moda. Cominciò a lavorare per Harper’s Bazaar su invito di Alexey Brodovitch, celebre art director della rivista, che lo introdusse all’élite creativa dell’editoria di lusso. La moda, nelle mani di Leiter, perdeva ogni artificio scenografico: le modelle venivano fotografate spesso in contesti urbani, con tagli inusuali, sfocate, immerse in atmosfere vagamente pittoriche. Questa libertà di approccio gli permise di collaborare con altre riviste prestigiose, tra cui Esquire, Elle, British Vogue e Nova. Tuttavia, Leiter non si sentì mai completamente a suo agio nel mondo patinato della moda, e preferì mantenere un profilo appartato, lontano dalle logiche commerciali.

Dal punto di vista tecnico, Saul Leiter utilizzava prevalentemente una Leica 35 mm, spesso montata con obiettivi 50 mm o 90 mm. In alcune occasioni impiegava teleobiettivi da 150 mm, che gli permettevano di isolare dettagli lontani e ottenere quel caratteristico schiacciamento dei piani che rendeva le sue immagini simili a tele dipinte. Le sue pellicole preferite erano la Kodachrome e la Ektachrome, entrambe capaci di rendere saturazioni delicate e ombre profonde. Spesso scattava in condizioni di luce difficili: pioggia, neve, controluce, nebbia. In molti casi esponeva senza misuratore, affidandosi a una perfetta conoscenza della latitudine di posa della pellicola e del comportamento della luce su diversi materiali e superfici.

Una delle peculiarità di Leiter era il montaggio visivo delle sue fotografie. Era molto influenzato dalla pittura orientale, dalla quale riprendeva l’idea di vuoto e silenzio come elementi strutturali dell’immagine. Le sue inquadrature sembravano quasi sempre ritagliate da un’osservazione paziente, da un’attesa. Non era un fotografo d’azione, ma di contemplazione. Fotografava spesso d’inverno, con la neve che ovattava i rumori e il traffico, o durante i giorni di pioggia, quando la città diventava uno scenario fluttuante, riflesso e trasfigurato.

Il lavoro di Leiter rimase per decenni in larga parte sconosciuto al pubblico. Mentre colleghi come Robert Frank, Diane Arbus e Garry Winogrand ricevevano attenzione internazionale, lui continuava a lavorare in silenzio nel suo studio di New York, circondato da centinaia di negativi e diapositive non sviluppate. Solo all’inizio degli anni Duemila, grazie all’interesse del curatore Martin Harrison e della Howard Greenberg Gallery, la sua opera venne finalmente valorizzata. La pubblicazione del volume “Early Color” nel 2006 fece esplodere l’interesse per Leiter in tutto il mondo. Le mostre retrospettive cominciarono a moltiplicarsi, e la critica lo riconobbe come uno dei precursori della fotografia a colori artistica, ben prima dei più noti William Eggleston e Stephen Shore.

Nonostante il tardivo riconoscimento, Leiter non cambiò mai il proprio atteggiamento. Continuava a stampare le proprie foto con grande cura, alternando la camera oscura tradizionale per il bianco e nero a scansioni ad alta risoluzione per le diapositive a colori. Spesso accostava immagini recenti a fotografie realizzate decenni prima, costruendo una narrazione per accumulo, per affinità tonale e formale, più che per logica temporale.

Il suo lavoro, oltre alla fotografia di strada e alla moda, comprendeva anche numerosi autoritratti, nature morte e nudi. Questi ultimi erano tra i suoi soggetti prediletti, trattati sempre con estrema delicatezza. Leiter evitava la posa artificiale, preferiva catturare i corpi in momenti di abbandono, di riposo, illuminati da una luce radente, spesso filtrata da una tenda o riflessa da una parete. Anche in questi casi la pittura tornava a essere riferimento costante, soprattutto l’opera di Bonnard, Matisse e Vuillard, da cui riprendeva le tonalità calde e la morbidezza delle superfici.

Nel 2013 fu presentato il documentario “In No Great Hurry: 13 Lessons in Life with Saul Leiter”, realizzato da Tomas Leach. Il film è un ritratto affettuoso e ironico dell’uomo e dell’artista, costruito attraverso conversazioni informali e incursioni nel suo studio caotico e pieno di vita. Leiter, ormai ottantenne, si mostrava disilluso ma divertente, scettico verso l’industria dell’arte ma ancora innamorato della fotografia.

Negli ultimi anni della sua vita, Leiter continuò a fotografare con assiduità. Sebbene affaticato dalla salute, non smise mai di osservare il mondo con la stessa curiosità dei suoi vent’anni. Lavorava con strumenti digitali solo marginalmente, e preferiva ancora stampare su carta analogica, rispettando i processi chimici tradizionali. Quando morì, il 26 novembre 2013, lasciò un archivio straordinario: migliaia di negativi, centinaia di rullini mai sviluppati, provini, polaroid, schizzi, appunti.

Oggi le sue fotografie sono esposte nei più importanti musei del mondo. Il Museum of Modern Art di New York, il Whitney Museum, il Victoria and Albert Museum di Londra e molte altre istituzioni ospitano le sue opere. Libri come “Early Color”, “All About Saul Leiter”, “Saul Leiter: Retrospective” e “Photofile: Saul Leiter” sono diventati punti di riferimento per fotografi e studiosi.

L’opera di Saul Leiter dimostra che la fotografia non è solo una questione di attrezzatura o tecnica, ma soprattutto di sguardo. La sua capacità di trovare la poesia nel quotidiano, di trasformare un autobus in una tela, un passante in una pennellata, un riflesso in un’emozione, lo colloca tra i più grandi fotografi del Novecento. La sua visione, fatta di delicatezza, introspezione e mistero, resta unica. La città per lui era un pretesto, uno specchio dell’anima. E la fotografia, più che un atto documentario, era un gesto di amore silenzioso verso le cose semplici, verso i colori della pioggia e della neve, verso le ombre fugaci che passano tra una finestra e l’altra.

Articoli più letti

FATIF (Fabbrica Articoli Tecnici Industriali Fotografici)

La Fabbrica Articoli Tecnici Industriali Fotografici (FATIF) rappresenta un capitolo fondamentale...

Otturatore a Tendine Metalliche con Scorrimento Orizzontale

L'evoluzione degli otturatori a tendine metalliche con scorrimento orizzontale...

Alfred Gauthier

L’avventura imprenditoriale di Alfred Gauthier ebbe inizio nel 1902 a Calmbach,...

Il Sonnar

L'evoluzione dell'ottica fotografica ha sempre rappresentato una sfida intellettuale...

Finetta Werk

La Finetta Werk rappresenta uno dei capitoli meno conosciuti ma tecnicamente più...

La macchina fotografica: Il sensore Fotografico

La storia della macchina fotografica ha visto, sin dai...

La Camera Obscura

Il termine camera obscura (in italiano camera oscura) fu...

Robert Doisneau

Nato il 14 aprile 1912 a Gentilly, in Francia,...
spot_img

Ti potrebbero interessare

Categorie

spot_imgspot_img
Previous article
Next article