Un periodo di significativo sviluppo nell’ambito della fotografia si estese tra il 1840 e il 1850, portando alla luce un mercato in crescita di accessori fotografici, con particolare attenzione agli obiettivi. Questo periodo vide un’evoluzione dinamica nel design e nella funzionalità di questi componenti, segnando una svolta importante nella pratica fotografica.

Nel corso degli anni ’40, un progresso notevole fu segnato dall’opera del matematico ungherese Josef Petzval, che concepì e realizzò il primo obiettivo calcolato matematicamente. Questo traguardo fu fondamentale nell’ottimizzazione delle prestazioni degli obiettivi fotografici. L’obiettivo di Petzval, composto da quattro lenti, offriva un’eccezionale luminosità con un’apertura di f/3.7. Questo risultato influì in modo significativo sulla fotografia dell’epoca, contribuendo alla riduzione dei tempi di esposizione richiesti.

Fu la Voigtländer, un’azienda nata a Vienna nel 1756 e già ben consolidata nell’ambito ottico, a lanciare sul mercato il primo apparecchio fotografico dotato dell’innovativo obiettivo di Petzval. Questo fu un passo cruciale nell’evoluzione tecnologica della fotografia, poiché l’innovazione portata da Petzval rese possibile una maggiore flessibilità nella cattura delle immagini, con tempi di esposizione notevolmente ridotti. L’elevata luminosità dell’obiettivo migliorò le prestazioni in condizioni di scarsa illuminazione, consentendo una gamma più ampia di opportunità creative.

L’introduzione dell’obiettivo di Petzval segnò un cambiamento paradigmatico nell’ambito degli accessori fotografici, aprendo la strada a ulteriori innovazioni e allo sviluppo di apparecchiature sempre più avanzate. Questo periodo rappresentò una fase di transizione cruciale in cui la tecnologia ottica e l’ingegneria si intrecciarono in modo significativo con la fotografia, contribuendo a definire le basi per le future scoperte e miglioramenti nell’industria fotografica.

L’innovazione portata dall’obiettivo di Petzval, commercializzato dalla Voigtländer, segna un momento di svolta nel panorama fotografico dell’epoca, ampliando le possibilità creative e pratiche per i fotografi. L’introduzione di obiettivi calcolati matematicamente non solo migliorò la qualità delle immagini, ma rivoluzionò anche la pratica stessa della fotografia, aprendo la strada a un periodo di intensa innovazione e cambiamento nel mondo dell’immagine fotografica.

Il decennio compreso tra il 1840 e il 1850 è un periodo di fervente attività e significativo progresso nel campo della fotografia, segnando una fase di rapida evoluzione e crescita nell’ambito dell’immagine fotografica. Durante questo intervallo temporale, una serie di eventi e sviluppi ha contribuito a ridefinire profondamente il panorama fotografico dell’epoca.

Il decennio ebbe inizio con l’apertura del primo studio fotografico in Europa, grazie all’energia imprenditoriale di Richard Beard, che scelse Londra come sede del suo pionieristico studio. Questo evento segnò l’avvio di una nuova era nell’industria fotografica, aprendo le porte alla professione di fotografo e aprendo nuove opportunità per coloro che desideravano preservare i propri ricordi e creare ritratti di famiglia.

Parallelamente, emersero anche progetti fotografici di più ampio respiro. Uno dei primi esempi fu un insieme di 457 immagini che documentavano la prima assemblea generale della Chiesa Libera di Scozia. Questo progetto, curato dai fotografi scozzesi David Octavius Hill e Robert Adamson, non solo dimostrò il potenziale della fotografia per la documentazione storica, ma gettò le basi per l’uso della fotografia come strumento di narrazione visiva.

In questo periodo si assistette anche alla pubblicazione di libri fotografici di rilievo. William Henry Fox Talbot, uno dei pionieri della fotografia, contribuì significativamente con il suo lavoro “The Pencil of Nature”. Questa pubblicazione rappresentò uno dei primi tentativi di utilizzare la fotografia come mezzo di comunicazione e diffusione artistica.

L’evoluzione tecnica non fu da meno: nuovi tipi di fotografia iniziarono a prendere forma. La fotografia stereoscopica, sviluppata da David Brewster, aprì la strada a un modo completamente nuovo di sperimentare le immagini in tre dimensioni. L’astrofotografia, curata da John William Draper, aprì nuovi orizzonti nell’osservazione e nella documentazione dell’universo. La microfotografia, tra le molte altre innovazioni, rese possibile l’esplorazione del microcosmo con dettagli straordinari.

Il periodo in questione è caratterizzato da un significativo sviluppo nel campo della fotografia, che va di pari passo con l’ascesa di importanti aziende del settore. Oltre alla già menzionata Voigtländer, la fondazione della Zeiss rappresenta un altro importante traguardo in questo panorama in crescita. Inoltre, questo è il momento in cui le prime pubblicazioni giornalistiche dedicare alla fotografia vedono la luce, con “The Daguerrian Journal” che spicca come la prima rivista di questo genere mai creata.

Il contesto dell’epoca vide un’intensa attività imprenditoriale che fece emergere grandi aziende nel campo della fotografia, rafforzando ulteriormente l’importanza di questa forma d’arte e di espressione visiva. La fondazione della Zeiss, nota per le sue lenti ottiche di alta qualità, rappresentò un passo in avanti nell’innovazione tecnologica, contribuendo in modo significativo al miglioramento delle apparecchiature fotografiche.

Parallelamente all’ascesa delle aziende fotografiche, la nascita delle prime testate giornalistiche dedicate alla fotografia sottolinea l’importanza crescente di questa forma d’arte nella comunicazione e nella documentazione. “The Daguerrian Journal“, come la prima pubblicazione di questo tipo, giocò un ruolo essenziale nel diffondere le nuove scoperte e le innovazioni nel campo fotografico, contribuendo a una diffusione ancora più ampia dell’arte e della pratica fotografica.

Dal punto di vista tecnico, l’evoluzione dei processi di sviluppo fotografico è un tassello cruciale in questo panorama. Nel corso del tempo, questi processi subirono diverse trasformazioni, mirate a migliorare sia la qualità delle stampe finali che i tempi di esposizione richiesti. Questi sviluppi contribuirono in modo significativo a rendere la fotografia più accessibile e pratica, aprendo la strada a una gamma più ampia di possibili applicazioni.

La combinazione di progressi tecnologici e crescita imprenditoriale in questo periodo ha gettato le basi per un’espansione sempre maggiore dell’industria fotografica e per l’affermazione della fotografia come forma d’arte e strumento di comunicazione sempre più rilevante. La collaborazione tra aziende fotografiche e testate giornalistiche ha contribuito a un ciclo virtuoso di innovazione e diffusione, che ha plasmato il corso futuro della fotografia in modi duraturi.

Curiosità: Un fatto di notevole interesse nel contesto storico dell’evoluzione della fotografia è rappresentato dalla prima immagine documentata della luna, attribuita a John W. Draper e datata 26 marzo 1840. Questo pionieristico avvenimento segna un tassello cruciale nell’intersezione tra fotografia e astronomia.

L’impresa fu resa possibile grazie all’applicazione del processo del dagherrotipo, una tecnica che Draper padroneggiò con maestria. Utilizzando la sua struttura osservativa posta sul tetto della New York University, l’astronomo riuscì a catturare un’istantanea della luna, offrendo un’immagine tangibile di questo corpo celeste.

Questo episodio riveste una rilevanza particolare non solo in quanto testimonia le prime fasi di sperimentazione e applicazione della tecnologia fotografica all’ambito astronomico, ma anche perché cela in sé la potenziale scoperta di dettagli nascosti sulla superficie lunare. L’immagine della luna acquisita da Draper gettò le basi per una nuova modalità di esplorazione, consentendo di osservare dettagli altrimenti invisibili a occhio nudo.

La data del 26 marzo 1840 rappresenta un punto di svolta nella capacità dell’umanità di catturare il mondo celeste attraverso la lente della fotografia. Questo evento inaugurò una nuova era di possibilità per gli astronomi e i fotografi, aprendo la strada alla documentazione visiva accurata dei corpi celesti e aprendo un campo di studio che avrebbe continuato a svilupparsi nel corso dei decenni successivi.

La fotografia della luna di John W. Draper, ancorché semplice e primitiva rispetto agli standard tecnologici odierni, si configura come una pietra miliare che ha contribuito a definire il rapporto tra la tecnologia fotografica e l’indagine astronomica. Il suo sforzo nel catturare l’immagine della luna da un osservatorio universitario ha tracciato la via per una sinergia duratura tra fotografia e astronomia, gettando le basi per le ricerche e le scoperte future nel vasto universo celeste.

La prima foto della Luna – immagine di pubblico dominio tramite Wikipedia
La prima foto della Luna – immagine di pubblico dominio tramite Wikipedia

Il progresso costante nell’evoluzione della fotografia ha visto un passo significativo compiuto da Louis Fizeau nel 1841, un fisico che ha notevolmente contribuito a migliorare l’efficienza e la sensibilità del processo fotografico. Il risultato di questa innovazione fu l’abbreviazione notevole del tempo di esposizione richiesto per catturare immagini, aprendo la strada a nuovi ambiti di applicazione, tra cui i ritratti fotografici.

L’elemento chiave in questa svolta tecnologica fu la sostituzione dello ioduro d’argento, comunemente utilizzato come sostanza fotosensibile, con il bromuro d’argento. Quest’ultimo dimostrò una sensibilità alla luce notevolmente superiore, consentendo la cattura di immagini più velocemente e con maggiore precisione. Questo passo avanti significò un cambio di paradigma nell’ambito della fotografia, permettendo una maggiore flessibilità nella creazione di immagini senza dover aspettare tempi di esposizione prolungati.

La riduzione del tempo di esposizione rappresentò un vantaggio cruciale, soprattutto quando si trattava di ritratti fotografici. Prima di questa innovazione, la lunga durata delle esposizioni rendeva praticamente impossibile catturare in maniera realistica il volto umano, poiché i soggetti dovevano rimanere immobili per lunghi periodi di tempo. La tecnica con il bromuro d’argento, con esposizioni di pochi secondi, rese possibile finalmente la fotografia di ritratto, aprendo nuove opportunità artistiche ed espressive.

Questo progresso nel processo fotografico non solo ha dato impulso alla creazione di ritratti, ma ha anche ampliato il campo delle possibilità creative per fotografi e artisti. Le limitazioni tecniche che una volta erano un ostacolo significativo furono ora superate, aprendo la strada a nuove sperimentazioni e all’esplorazione di nuovi stili e soggetti.

In definitiva, la sostituzione dello ioduro d’argento con il bromuro d’argento nel processo fotografico, resa possibile grazie agli sforzi di Louis Fizeau nel 1841, rappresentò un punto di svolta nell’evoluzione della fotografia. Questo progresso tecnologico non solo accelerò il processo di cattura delle immagini, ma aprì la strada a una serie di nuove possibilità creative e applicative, segnando un momento cruciale nella storia dell’arte visiva e della comunicazione attraverso le immagini.

Curiosità: un rilevante episodio nella congiunzione tra la fotografia e l’astronomia risiede nell’acquisizione della prima immagine del nostro sole, un avvenimento che risale al 2 aprile 1845 grazie all’ingegno dei fisici francesi Louis Fizeau e Leon Foucault. Attraverso l’applicazione del processo di dagherrotipo, questo primordiale tentativo si configurò come un momento significativo nell’ambito della fotografia astronomica.

In un’epoca in cui la tecnologia fotografica era ancora in fase embrionale, l’impresa intrapresa da Fizeau e Foucault dimostra una notevole audacia e determinazione nell’affrontare la sfida di ritrarre il sole nella sua interezza. Mediante l’impiego di una metodologia che richiedeva procedimenti complessi e competenze tecniche raffinate, i due scienziati riuscirono a raggiungere l’obiettivo di acquisire un’istantanea di rilevanza storica, offrendo un’occhiata pionieristica alla nostra stella primaria.

Una delle caratteristiche distintive di questa fotografia è l’elevato grado di dettaglio che fu possibile ottenere, nonostante le limitazioni tecnologiche dell’epoca. Attraverso l’uso di un tempo di esposizione estremamente breve, pari a 1/60 di secondo, Fizeau e Foucault furono capaci di catturare un’immagine dei raggi solari sulla superficie sensibile della lastra fotografica, riuscendo persino a rendere visibili le caratteristiche distintive delle macchie solari con un’osservazione attenta.

Questa fotografia non soltanto riflette il talento e l’ingegno caratteristici di quegli anni, ma costituisce altresì un documento tangibile che consente un’immersione visuale nel passato, permettendo di esaminare da vicino un aspetto del nostro sistema solare così come veniva percepito all’epoca. Il coraggio e la determinazione manifestati nell’affrontare nuovi fronti tra l’arte e la scienza emergono chiaramente in quest’opera, la quale continua a rappresentare un’iconica testimonianza dell’incessante ricerca umana di comprensione e cattura del mondo circostante.

In un’epoca in cui l’astronomia stava rivelando nuove sfaccettature della natura cosmica, Fizeau e Foucault unirono le loro competenze per portare il sole più vicino attraverso l’obiettivo della macchina fotografica. Questa curiosità e perseveranza ha reso possibile un risultato che, ancora oggi, ci offre una prospettiva storica sulla fotografia, sull’astronomia e sulla costante ricerca dell’umanità di esplorare e comprendere l’universo che ci circonda.

La prima foto solare.  Immagine di pubblico dominio tramite Wikipedia
La prima foto solare. Immagine di pubblico dominio tramite Wikipedia

Per migliorare la trasparenza negativa del calotipo, Abel Niépce de Saint-Victor ebbe l’idea, nel 1847, di sostituire la carta con il vetro. Affinché il bromuro d’argento aderisca al vetro, Abel Niépce de Saint-Victor lo mescola all’albume d’uovo. Anche se un po’ troppo contrastanti, le immagini diventano molto più nitide, costringendo gli ottici a lavorare su lenti ad alta definizione.

Un altro anno importante fu il 1847. Niépce de Saint Victor (un parente dei fratelli Niepce) ideò un procedimento che non ebbe molta fortuna: creò il negativo su lastra di vetro albuminata (ricoperta quindi di bianco d’uovo e alogenuro di argento, successivamente immersa in una soluzione di nitrato d’argento e, dopo l’esposizione, tale da svilupparsi in acido gallico e pirogallico). Fece ciò per risolvere il problema della poca trasparenza della carta, non ideale per la creazione di positivi da negativi. L’idea fu però non vincente per quanto riguarda la scarsa sensibilità del prodotto finale e anche per i tempi di posa (pari a circa 10 minuti), ma ottima per quanto riguarda la definizione dell’immagine finale (tanto che questa invenzione costrinse gli ottici a lavorare su ottiche ad alta definizione) e per l’intuizione di usare l’albumina quale “colla” per la soluzione fotosensibile (tanto da diventare il procedimento standard per i successivi 50 anni!). Sono le basi per la realizzazione della carta all’albumina ad opera di Luois Blanquart-Evrard).  Un processo simile, chiamato Cristallotipo, fu perfezionato dall’americano John Adams Whipple poco dopo: entrambi i processi erano lenti ma producevano vetrini per lanterne di vetro di eccellente qualità che andarono molto di moda in quel periodo.

Nel 1847, come accennato, Louis Desire Blanquart-Evrard, uno dei maggiori esponenti del miglioramento del calotipo in Francia, sviluppò un metodo di bagno della carta in soluzioni di ioduro di potassio e nitrato d’argento piuttosto che spazzolare questi bagni chimici in superficie, come aveva fatto Talbot. Esposto allo stato umido (come lo era stato quello di Talbot), il negativo risultante ha mostrato un miglioramento della gamma tonale perché le fibre della carta erano più uniformemente sature.

Ulteriori miglioramenti nella definizione sono seguiti quando il pittore francese Gustave Le Gray ha sviluppato il procedimento della carta cerata, un metodo di utilizzo della cera bianca sul negativo su carta prima che fosse sensibilizzato. Dopo essere stata immersa in una soluzione di acqua di riso, zucchero del latte, potassio o ammonio iodato e bromuro di potassio, veniva sensibilizzata in nitrato di sodio e acido acetico. A questo punto la carta era pronta per l’uso sia allo stato umido che secco.  L’attenzione di Le Gray per l’estetica della fotografia lo portò a sperimentare i tempi dei vari bagni chimici nel tentativo di produrre diverse colorazioni nelle sue stampe.

Nel 1839 Herschel suggerì il vetro come supporto peri negativi, ma fu solo nel 1847 che si sviluppò un procedimento per la realizzazione di negativi all’albumina su lastre di vetro. Claude Felix Abel Niepce de Saint-Victor (un parente dei fratelli Niepce) propose una miscela di albume d’uovo con ioduro di potassio e cloruro di sodio per formare un rivestimento trasparente sul vetro, che fu poi immerso in una soluzione di nitrato d’argento e, dopo l’esposizione, si sviluppò in acido gallico e pirogallico. In contemporanea il Cristallotipo fu perfezionato dall’americano John Adams Whipple: entrambi i processi erano lenti ma producevano vetrini per lanterne di vetro di eccellente qualità.

Coloro che lavoravano il vetro si rivolsero poi al collodio, un derivato della nitrocellulosa, che diventava liquido, trasparente e appiccicoso quando disciolto in alcool o spirito. Gli esperimenti con il collodio furono intrapresi da Le Gray e Robert Bingham in Francia nel 1850, ma le prime direttive praticabili per usarlo come legante per i sali d’argento sensibili alla luce apparvero nel 1850 e nel 1851 in un articolo in due parti su The Chemist scritto da Frederick Scott Archer, uno scultore inglese.

Quindi fu nel 1851 che arrivò un forte salto di qualità grazie a Frederick Scott Archer che inventò la tecnica del collodio umido e l’ambrotipo.  Il collodio umido, che conteneva ioduro di potassio (il bromuro di potassio fu aggiunto in un secondo momento), veniva versato uniformemente su una lastra di vetro, che veniva poi immersa in un bagno di nitrato d’argento per formare argento iodato. Il tempo di esposizione era notevolmente ridotto, ma solo se la piastra era stata utilizzata immediatamente allo stato umido. Poiché doveva essere sviluppata (di solito in solfato ferroso) mentre ancora umida, la “piastra bagnata”, come venne chiamata, rese necessarie delle camere oscure portatili per il lavoro all’aperto.

Riassumendo, il risultato ottenuto da Archer era talmente buono da spazzare via le soluzioni basate sul dagherrotipo e calotipia.  Questo procedimento di fatto spianò la strada alla stampa di fotografie su carta in una qualità superiore rispetto a quella ottenuta dalla calotipia. In America, quasi contemporaneamente, si diffuse ben presto una variante del processo, chiamata ferrotipo, ideata dal professor Hamilton Smith, finalizzata alla realizzazione di immagini su lastre di metallo (al posto del vetro), tipicamente ferro, latta o alluminio (da cui il nome inglese tintype).

In ogni caso, in contemporanea alle invenzioni di Archer, ci fu un’evoluzione anche nel dagherrotipo, con la definizione, sempre nel 1851, di un metodo per la realizzazione di dagherrotipi a colori, presumibilmente realizzato dall’americano Levi L. Hill. Questo metodo fu giudicato però inconcludente, anche se è possibile che Hill si fosse imbattuto in un risultato che non era in grado di duplicare.

Prima che il processo al collodio venisse utilizzato esclusivamente per i negativi, ha goduto di un periodo di popolarità sotto forma di vetro positivo, o Ambrotipo, come veniva chiamato nella sua versione americana brevettata nel 1854 da James Ambrose Cutting di Boston. Aggiungendo sostanze chimiche allo sviluppatore e retrocedendo il negativo su vetro con un panno nero o una vernice nera, l’immagine veniva invertita visivamente da un negativo a un positivo che generalmente veniva presentato al cliente racchiuso nello stesso tipo di telaio di un dagherrotipo. Anche il collodio sensibilizzato è stato presentato nella produzione diretta di un positivo su foglio metallico. Conosciuto in generale come stagno, ma anche chiamato ferrotipo, il processo è stato scoperto nel 1853 in Francia e nel 1856 sia in Inghilterra che negli Stati Uniti, per poi essere migliorato con l’introduzione di un processo di stagno secco nel 1891. Dal momento che i fogli di stagno venivano prodotti rapidamente (che richiedevano poco più di un minuto dall’inizio alla fine), poco costosi da produrre e facili da inviare per posta, erano popolari tra i soldati durante la guerra civile americana. Considerate che sono stati prodotti per gli intenditori per tutto il XX secolo.

Lo stesso albume d’uovo suggerito da Niepce de Saint-Victor come legante per i negativi su vetro è stato utilizzato anche per chiudere i pori delle carte da stampa fotografica, per evitare che i sali d’argento penetrino nelle strutture irregolari delle fibre o influiscano sulle dimensioni chimiche utilizzate nella fabbricazione della carta fotografica. Il primo processo praticabile per la fabbricazione della carta all’albumina, annunciato nel 1850 da Blanquart-Evrard, richiedeva di rivestire la carta con un mix di albume d’uovo e sale da tavola o cloruro di ammonio, dopodiché veniva essiccata e conservata fino al momento del bisogno. Prima dell’esposizione, la carta veniva sensibilizzata facendo galleggiare l’albume a testa in una forte soluzione di nitrato d’argento. Dopo l’essiccazione, veniva esposta a contatto con un negativo per tutto il tempo necessario per ottenere un’immagine visibile, cioè non è stato utilizzato alcuno sviluppo chimico.

Blanquart-Evrard ha anche ideato una carta che è stata sviluppata chimicamente in acido gallico dopo l’esposizione con il negativo – una procedura che ha permesso alla sua tipografia di Lille, in Francia, di produrre da 300 a 400 stampe al giorno da un singolo negativo. Le stampe finali si ottenevano dopo l’esposizione di carta sia negativa che sensibilizzata umida posizionate in un supporto, la stampa veniva sviluppata in acido gallico, lasciata per un periodo di tempo più lungo nel bagno di fissaggio, ed esposta alla luce del sole per cambiare il suo colore da ruggine ad una tonalità profonda, ricca, quasi nera. Durante la metà del 1850, le carte all’albume con un aspetto lucido divennero molto popolari. La combinazione del negativo al collodio di vetro e della carta all’albume rendeva possibile la stampa commerciale su larga scala, ma poiché nessuna preparazione fatta per la fotografia ha causato così tante lamentele come la carta all’albume, la ricerca per un mezzo di stampa stabile continuò.

In contemporanea si sviluppò un altro processo molto interessante: Il processo al carbone, Questo era basato sulle ricerche sulla sensibilità alla luce del bicromato (allora chiamato bicromo) di potassio dello scienziato scozzese Mungo Ponton nel 1839 (evoluto poi in Francia da Edmond Becquerel nel 1840 e Alphonse Poitevin nel 1855 e in Inghilterra da John Pouncy nel 1858), che sostituirono la gelatina di cromata mescolata con i sali d’argento come agente sensibile alla luce per le stampe positive. Quando veniva esposto contro un negativo, un foglio di carta rivestito con una mistura di gelatina, materiale colorante (che inizialmente era nero carbone, da cui il nome) e potassio dicromatico riceveva l’immagine in proporzione alla quantità di luce che passava attraverso il negativo: dove sottile, la gelatina si induriva, dove densa (le zone chiare della scena) rimaneva solubile e veniva lavata via con acqua calda dopo l’esposizione. Nelle sue prime applicazioni, le aree luminose realizzate con questa tecnica tendevano a diventare completamente bianche (o meglio, tutto veniva lavato via e si tornava al foglio originale), ma questo problema fu risolto nel 1864 quando l’inventore britannico Joseph Wilson Swan scoprì che utilizzando uno strato carbone rivestito di gelatina pigmentata in combinazione con uno strato di gelatina trasparente, le tonalità più chiare venivano mantenute non venivano lavate via. Questo materiale divenne disponibile in commercio nel 1866, e poco dopo Swan vendette in franchising per la produzione di massa di stampe in carbonio alla Autotype Company in Inghilterra, Adolphe Braun a Domach e Franz Hanfstaengl a Monaco di Baviera.

Nel contesto di questo periodo storico, il cianotipo emerge come un processo fotografico distintivo che si discosta dai tradizionali metodi basati sull’argento, portando con sé una notevole evoluzione. Descritto per la prima volta da Sir John Herschel nel 1842, il cianotipo sfrutta la fotosensibilità dei sali ferrici, i quali subiscono una trasformazione quando esposti alla luce, passando da uno stato ferrico a uno stato ferroso. Questa transizione permette ai sali ferrici di combinarsi con altri composti, dando origine alla formazione di un’immagine fotografica.

Herschel ha sperimentato con il cloruro ferrico o il citrato ferrico di ammonio accoppiati al ferrocianuro di potassio. Questa combinazione di elementi fornisce una solida base per la generazione di immagini, aprendo la strada a diverse applicazioni. Intorno al 1984, il cianotipo ha dimostrato la sua efficacia nella riproduzione di campioni botanici, dimostrando il suo potenziale nel campo della documentazione scientifica.

Verso gli anni ’90 del XIX secolo, il cianotipo ha catturato l’interesse dei fotografi dilettanti, segnalando un nuovo interesse nell’utilizzo di questo processo. Tuttavia, nel corso del XX secolo, la sua utilità si è principalmente spostata verso la duplicazione di disegni industriali, sfruttando la sua precisione nella creazione di copie esatte di documenti tecnici. Mentre in passato i fotografi artistici esitavano nell’utilizzare il cianotipo a causa del suo colore blu brillante, questo processo continua ad essere rilevante nella fotografia artistica contemporanea. Il suo caratteristico colore blu, oggi apprezzato per la sua forza e suggestione, ha trovato nuove sfumature espressive nelle opere dei fotografi moderni. Nonostante le innovazioni tecniche e l’introduzione di nuovi processi, il cianotipo conserva il suo fascino creativo per coloro che desiderano sperimentare nell’ambito della fotografia e sfidare le convenzioni tradizionali dell’immagine fotografica

Nel 1854, il fotografo francese André Disdéri introdusse un importante sviluppo nel campo degli apparecchi fotografici con il brevetto di un’innovativa fotocamera dedicata ai ritratti fotografici. Questo dispositivo segnò una svolta nel processo di produzione e distribuzione delle immagini fotografiche.

L’apparecchio ideato da Disdéri era dotato di quattro obiettivi (successivamente aumentati a 8 e poi a 12), consentendo di stampare simultaneamente quattro, otto o dodici immagini su una stessa lastra. La sua creazione rivoluzionò il mondo della fotografia in quanto rendeva possibile ottenere più ritratti sulla stessa lastra, riducendo considerevolmente i costi per singola immagine. Tale approccio consentiva anche di utilizzare la stessa lastra per scattare foto diverse in momenti successivi, semplicemente cambiando il soggetto. Questo innovativo sistema permetteva al fotografo di stampare un numero variabile di copie identiche della stessa foto, in base al numero di obiettivi aperti.

Un vantaggio significativo del dispositivo di Disdéri risiedeva nella sua efficacia economica: le dimensioni ridotte e la possibilità di produrre multiple copie di diverse immagini su una singola lastra (12 foto con la stessa lastra (dimensioni 6×9 cm circa) contribuivano a un notevole abbattimento dei costi per foto. Questo cambiamento fu un passo importante verso la democratizzazione della fotografia, rendendola accessibile a un pubblico più ampio.

Le fotografie risultanti da questo processo venivano successivamente incollate su supporti cartonati rigidi e vennero chiamate “carte de visite“. Queste carte rappresentavano un’innovativa forma di biglietto da visita, arricchite dalla presenza di una fotografia personale. Questo sviluppo fu fondamentale nel promuovere la diffusione della fotografia nella società, creando un legame tra la fotografia e l’ambito delle relazioni sociali e professionali.