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Gabriele Basilico

Gabriele Basilico nacque a Milano il 12 agosto 1944 e morì nella stessa città il 13 febbraio 2013. È stato uno dei più importanti fotografi italiani del Novecento, noto per il suo lavoro rigoroso e meditato sulla trasformazione del paesaggio urbano e sulla memoria architettonica dei luoghi. La sua produzione si è imposta a livello internazionale per la capacità di unire uno sguardo analitico, derivato dalla formazione in architettura, con un linguaggio fotografico raffinato e coerente. Basilico è stato spesso definito un “misuratore di spazi”, non tanto per affinità retorica, quanto per il rigore e la sistematicità con cui ha registrato le trasformazioni del territorio contemporaneo.

Dopo il diploma presso la Scuola di Architettura del Politecnico di Milano, Basilico abbandonò progressivamente la professione di architetto per dedicarsi interamente alla fotografia. La sua sensibilità per la composizione, per la geometria delle strutture, per la luce come elemento rivelatore dello spazio, derivava direttamente dagli studi tecnici. L’interesse verso l’immagine era però già emerso negli anni Sessanta, quando si avvicinò alla fotografia in modo intuitivo, esplorando i primi temi con approccio documentaristico.

Il primo lavoro significativo fu “Milano. Ambiente urbano” nel 1978, un’indagine sulle periferie industriali della città, che prefigurava già l’ossatura della sua intera produzione futura: l’attenzione per l’architettura marginale, per le infrastrutture abbandonate, per le porzioni residuali del tessuto urbano. Questo progetto fu seguito da “Dancing in Emilia” (1978), incentrato sulla cultura popolare, ma fu con “Milano. Ritratti di fabbriche” del 1981 che Basilico si affermò con forza nel panorama fotografico europeo. Lavorando con banco ottico e pellicole in grande formato, Basilico immortalò le architetture industriali dismesse di Milano con uno stile nitido, frontale, privo di retorica, fortemente influenzato dall’estetica della fotografia tedesca della Neue Sachlichkeit. Le inquadrature erano sempre studiate secondo una logica di bilanciamento interno, con linee prospettiche calibrate, assenza di figure umane e una luce diffusa capace di esaltare i volumi e la materia costruttiva degli edifici.

Durante gli anni Ottanta, Basilico partecipò a importanti commissioni pubbliche, tra cui il progetto francese DATAR, un’iniziativa statale volta a documentare le trasformazioni del paesaggio in Francia. Il suo contributo per la costa nord atlantica fu tra i più rilevanti: lì, Basilico affrontò spazi aperti, strutture industriali marittime, linee di costa soggette a erosione e mutamenti antropici. La sua capacità di cogliere le contraddizioni estetiche del territorio, senza alcuna enfasi narrativa, si affermò come marchio di fabbrica. In quegli anni, l’uso del banco ottico, della pellicola 4×5 pollici e delle ottiche di precisione consentì a Basilico di costruire un linguaggio visivo rigoroso, profondamente architettonico ma al tempo stesso poetico.

Nel 1991 fu invitato a Beirut, appena uscita dalla guerra civile, per documentare lo stato della città. Il risultato fu il celebre “Beirut 1991”, una delle opere più potenti della fotografia urbana contemporanea. In queste immagini, Basilico rinunciò alla pulizia compositiva e abbracciò un linguaggio più aperto all’imprevisto, alla rovina, alla disgregazione. Le facciate sventrate, le strade deserte, i muri crivellati di colpi, parlavano direttamente allo spettatore con una forza drammatica che non scadeva mai nell’enfasi emotiva. Le scelte tecniche si adattarono al contesto: pellicole ad alta sensibilità, riprese rapide, profondità di campo limitata. L’autore dimostrò così di saper adattare la propria grammatica visiva alle esigenze del soggetto, mantenendo una costante fedeltà alla fotografia come strumento di conoscenza.

Nel corso degli anni Novanta, Basilico continuò a lavorare su scala internazionale. A Berlino documentò la transizione urbanistica post-caduta del muro. In Italia, si concentrò su progetti commissionati da istituzioni pubbliche e private, tra cui la mappatura delle aree ex-industriali di Torino e la documentazione della trasformazione della costa romagnola. Ogni lavoro era concepito come parte di una lunga riflessione sul paesaggio urbano e sulle dinamiche di sviluppo e abbandono. La città non era mai solo sfondo, ma soggetto attivo, dotato di storia e stratificazioni. Basilico ne osservava la pelle, gli strati, le ferite, sempre con l’occhio dell’architetto e la pazienza dello storico.

Una parte significativa della sua attività si svolse anche nel campo editoriale. Pubblicò decine di volumi monografici, tra cui “Sezioni del paesaggio italiano” (1997), “Interrupted City” (1999), “Scambi urbani” (2000), “Porti di mare” (2003), “Berlin” (2001) e “Roma 2007”. Ogni libro era concepito come un progetto completo, dove l’impaginazione, la sequenza delle immagini, la presenza o l’assenza del testo, costituivano elementi narrativi e non accessori. I testi critici, spesso scritti da filosofi, urbanisti e architetti, accompagnavano la lettura delle fotografie senza sovrapporsi, offrendo una chiave di interpretazione che manteneva aperta la complessità del lavoro.

Sul piano tecnico, Basilico rimase fedele all’uso del banco ottico anche in epoca digitale. Pur accogliendo negli ultimi anni l’uso di dorsi digitali, che gli permettevano una qualità eccezionale nella restituzione dei dettagli, non rinunciò mai al controllo totale della prospettiva e alla messa a fuoco selettiva tipica delle fotocamere tecniche. La profondità di campo ridotta, la scelta di diaframmi medio-piccoli (f/16 o f/22), i lunghi tempi di esposizione, contribuivano a generare immagini stabili, ponderate, prive di qualsiasi effetto retorico.

Basilico fu anche molto attento alla stampa. Lavorava personalmente ai provini e partecipava attivamente alla stampa in camera oscura. Le sue stampe in bianco e nero sono riconoscibili per la gamma tonale estremamente ricca, per la nitidezza calibrata, per l’equilibrio tra densità e dettaglio. Nelle versioni digitali, utilizzò spesso la stampa fine art su carta cotone, lavorando su immagini ad altissima risoluzione, in grado di reggere formati di oltre un metro senza perdita di qualità.

Nonostante la crescente fama, Basilico mantenne sempre una posizione defilata rispetto ai circuiti commerciali dell’arte contemporanea. Frequentò gallerie e musei internazionali, ma non cercò mai l’effetto né la spettacolarizzazione. Il suo approccio era quello del ricercatore, del cartografo visivo. Nel suo lavoro non c’era mai un soggetto scelto per la bellezza o per l’esotismo, ma sempre per la capacità di raccontare un processo, un cambiamento, una traccia.

Gabriele Basilico è morto nel 2013, lasciando un archivio vastissimo e una lezione ancora oggi insostituibile per chi si occupa di fotografia e di città. Le sue immagini continuano a essere studiate, pubblicate, esposte, perché sono molto più che fotografie: sono strumenti critici, mappe, sismografi del territorio. Con la sua opera, Basilico ha contribuito a ridefinire la fotografia urbana come campo di ricerca, come osservazione critica, come memoria visiva collettiva.

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