Ovviamente in parallelo allo sviluppo della camera oscura si lavorò tantissimo anche sul modo di fissare in maniera indelebile le immagini proiettate all’interno della camera stessa (come detto, già il Caravaggio trovò un modo per fissarle per alcuni minuti).
Pensate che i componenti chimici necessari per la fotografia come la conosciamo noi, non sono stati individuati/scoperti fino a circa 200 anni dopo chela camera obscura è stata concepita per la prima volta. Dall’antichità fino al rinascimento, il mistero che circondava le sostanze organiche e minerali e le loro reazioni alla luce e al calore hanno reso la sperimentazione chimica un esercizio inesatto, praticato soprattutto dagli alchimisti.
Il periodo medievale è stato testimone di una serie di scoperte e progressi che hanno gettato le basi per la futura fotografia chimica. Tra i protagonisti di questa fase si annoverano gli alchimisti, figure misteriose e inquisitive che esploravano le proprietà delle sostanze e la loro interazione con il mondo circostante. In questa intricata rete di sperimentazioni, un passo cruciale è stato compiuto inaspettatamente: durante gli esperimenti di riscaldamento, gli alchimisti hanno incanalato il loro interesse nel cloruro di sodio, noto comunemente come il semplice sale da cucina. Inaspettatamente, il riscaldamento del cloruro di sodio ha prodotto il cloro, un elemento chimico dalla natura volatile e reattiva. Questo evento casuale, apparentemente insignificante, ha aperto la strada a un nuovo mondo di scoperte.
L’associazione tra il cloro e l’argento è stata la scintilla che ha acceso il cammino verso i futuri processi fotografici. Gli alchimisti, sperimentando ulteriormente, hanno scoperto che quando il cloro veniva combinato con l’argento, si creava il cloruro di argento. Questo composto chimico, per la sorpresa degli alchimisti, aveva proprietà fotosensibili uniche.
Nelle loro osservazioni, gli alchimisti hanno notato che il cloruro di argento si presentava come bianco quando era al buio, ma sorprendentemente assumeva una tonalità scura alla luce diretta del sole. Questa reazione chimica al cambiamento di luminosità aveva un significato profondo e sarebbe diventata un pilastro per lo sviluppo della fotografia.
La scoperta del cloruro di argento come composto fotosensibile ha dimostrato che alcune sostanze chimiche hanno una reattività particolare alla luce. Questo concetto, sebbene all’epoca non fosse ancora pienamente compreso, avrebbe svolto un ruolo fondamentale nel futuro sviluppo dei processi fotografici. La strada era stata tracciata per la comprensione di come l’argento potesse reagire alla luce per creare un’immagine permanente, aprendo la porta a una nuova era di esplorazione visiva e cattura dell’immagine
È nel XVII secolo, in ogni caso, che abbiamo le prime scoperte importanti, quando furono identificati il nitrato d’argento, il cloruro d’argento (già individuato, come accennato, dagli alchimisti nel passato) e i sali ferrosi, le prime sostanze chimiche utilizzate negli esperimenti che hanno portato alla fotografia come la concepiamo oggi.
Per svelare le radici più profonde della fotografia chimica, dobbiamo fare un viaggio nel passato, un viaggio che ci conduce indietro al XVI secolo, quando la mente curiosa dell’inglese Robert Boyle compì una scoperta che gettò le basi per le future intuizioni sulla reattività della luce con i sali d’argento. Questo momento significativo rappresenta un primo passo verso la comprensione dei processi fotografici.
Fu proprio Boyle a svelare il mistero della reazione del clorato d’argento alla luce. L’osservazione che questo composto chimico tendeva a scurirsi quando veniva esposto alla luce solare gettò luce su una proprietà fondamentale dei sali d’argento. Nonostante la sua scoperta fosse ancora in una fase embrionale, Boyle aveva messo un pezzo importante nel puzzle della fotografia futura.
L’evoluzione delle intuizioni sulla luce e l’argento continuarono con l’italiano Angelo Sala nel XVII secolo. Sala sperimentò con la polvere di nitrato d’argento e fece un passo avanti fondamentale nel comprendere l’interazione tra l’argento e la luce. Egli osservò che anche la polvere di nitrato d’argento veniva annerita dal sole, sottolineando la reattività di queste sostanze alla luce.
Ma l’indagine non si fermò qui. Sala notò che lo stesso fenomeno poteva essere osservato anche con altri composti d’argento, come l’ioduro d’argento e il bromuro d’argento. Questi risultati dimostrarono che la reattività alla luce non era limitata a un singolo composto, ma era una proprietà intrinseca degli stessi sali d’argento.
Anche il chimico inglese Humphry Davy si unì a questa ricerca. I suoi esperimenti confermarono i risultati precedenti e rafforzarono l’idea che i sali d’argento potessero subire reazioni chimiche con la luce solare.
Questi scienziati, attraverso sperimentazioni pazienti e osservazioni attente, hanno gettato le basi per la comprensione della reattività unica dei sali d’argento alla luce. Le loro scoperte aprirono la strada a un nuovo mondo di possibilità, rivelando una dimensione nascosta dell’argento che avrebbe in seguito rivoluzionato il modo in cui catturiamo e percepiamo l’immagine.
Bisogna però attendere il 1725 quando il tedesco Johann Heinrich Schulze (professore di medicina all’Università di Altdorf) creò un composto a base di carbonato di calcio, acqua regia, acido nitrico e argento che reagiva alla luce solare: colpito da questa diventava rosso scuro (come contenitore utilizzò una banalissima bottiglia a cui applicò delle sagome di cartone per coprire le zone che non voleva fossero colpite dalla luce). La sostanza fu chiamata scotophorus. Ovviamente, non essendo “fissata”, le immagini restavano visibili solo temporaneamente in quanto, durante l’osservazione delle stesse, assorbivano luce solare annerendosi a loro volta.
L’evoluzione delle scoperte verso la fotografia chimica ha visto il contributo fondamentale di alcuni brillanti scienziati, tra cui il fisico italiano Giovanni Battista Beccaria e il chimico svedese Carl Wilhelm Scheele. Questi pionieri hanno sciolto il velo dell’oscuro mistero che circondava il processo di annerimento e hanno rivelato le intricanti connessioni tra la luce, i sali d’argento e il futuro della cattura fotografica.
Fu il fisico italiano Giovanni Battista Beccaria a gettare le basi scientifiche per la comprensione del fenomeno dell’annerimento. Attraverso esperimenti metodici, Beccaria dimostrò in modo conclusivo che l’oscuro mutamento nel materiale era il risultato della presenza di sali d’argento, una sostanza straordinariamente sensibile alla luce solare. La sua indagine approfondita era una luce che rischiarava il cammino verso il cuore della fotografia.
Ma il cammino verso la scoperta era un viaggio collettivo. Nel medesimo periodo, il chimico svedese Carl Wilhelm Scheele giunse a conclusioni simili, ignaro del lavoro di Beccaria. Nel 1777, Scheele pubblicò i suoi risultati che sottolineavano ancora una volta la connessione tra l’estremità violetta dello spettro solare e la reattività dei sali d’argento. Egli notò che questa porzione dello spettro era particolarmente attiva nel produrre l’effetto di annerimento. Inoltre, Scheele avanzò l’ipotesi che le particelle di argento metallico oscurate potessero essere precipitate dall’ammoniaca.
Questi risultati non solo sottolinearono la reattività unica dei sali d’argento alla luce, ma gettarono le basi per la futura comprensione delle proprietà chimiche coinvolte nel processo fotografico. I contributi di Beccaria e Scheele erano come gemme preziose, preziose perle di saggezza scientifica, incastonate nel mosaico dell’avvento della fotografia. Attraverso i loro sforzi congiunti, questi scienziati hanno aperto la strada per sperimentazioni e scoperte future che avrebbero portato al processo di cattura dell’immagine che avremmo conosciuto come fotografia
Nel 1782, uno dei momenti cruciali nella ricerca e nello sviluppo delle basi chimiche della fotografia è stato segnato dal bibliotecario capo di Ginevra, Jean Senebier. Attraverso i suoi esperimenti meticolosi, Senebier ha lanciato una luce brillante sulle proprietà del cloruro d’argento e sulla sua reazione alla luce.
La sua inquisitiva indagine riguardava il tempo necessario per vari livelli di luce per scurire i sali chimici, in particolare il cloruro d’argento. Questo processo era cruciale per comprendere come l’argento interagisse con la luce e come questa interazione potesse essere utilizzata nella cattura dell’immagine. Senebier aveva intrapreso una missione di esplorazione verso l’ignoto, attraverso la quale stava gettando le basi per un’arte e una scienza rivoluzionarie.
Ma l’importanza delle sue scoperte non si fermò qui. Senebier intraprese anche uno studio pionieristico sulla reazione del cloruro d’argento a diverse porzioni dello spettro luminoso. Questa mossa visionaria anticipò di fatto una serie di esperimenti successivi che dimostrarono che lo spettro luminoso poteva essere riprodotto con colori naturali sulla superficie del cloruro d’argento. Questo risultato apportò una chiara evidenza dell’interazione tra la luce e il cloruro d’argento, sottolineando la possibilità di catturare non solo le forme, ma anche i colori attraverso il processo chimico.
Le scoperte di Jean Senebier nel 1782 rappresentano un’importante pietra miliare nel percorso verso la nascita della fotografia. Le sue sperimentazioni sistematiche con il cloruro d’argento hanno aperto una finestra sulla natura reattiva della sostanza alla luce, aprendo la strada alla realizzazione pratica dei processi di cattura dell’immagine. La sua dedizione alla ricerca e alla scoperta ha gettato le basi per l’avvento di un’arte che avrebbe letteralmente “fermato il tempo” attraverso l’immagine fotografica
Due scienziati inglesi del XVIII secolo, il dottor William Lewis e Joseph Priestley, realizzarono il collegamento tra questi primi rudimentali esperimenti chimici e i successivi tentativi di trovare un modo per conservare un’immagine prodotta dall’oscuramento degli alogenuri d’argento da parte della luce. I quaderni del dottor Lewis, che aveva ripetuto gli esperimenti di Schulz dipingendo disegni in nitrato d’argento su osso bianco che aveva esposto alla luce del sole, furono acquistati da Josiah Wedgwood, un ceramista britannico, che cominciò a cercare un processo fotochimico da applicare alla ceramiche (fu incaricato da Caterina la Grande di Russia di fornire un servizio da tavola con 1.282 vedute di palazzi e giardini di campagna, molti dei quali furono realizzati con l’aiuto della camera obscura).
Come membro del gruppo di discussione della Lunar Society di Wedgwood, Priestley ha fornito informazioni sulle proprietà fotochimiche degli alogenuri d’argento, cosa che ha potuto fare in quanto è entrato in contatto con parecchie personalità di spicco della comunità scientifica europea. Nel 1802, il giovane Thomas Wedgwood cercò di trasferire i dipinti realizzati sul vetro su pelle bianca e carta inumidita con una soluzione di nitrato d’argento, descrivendo così l’immagine negativa che ne risultò: “dove la luce è inalterata, il colore del nitrato è più scuro”. Né Wedgwood né il suo collaboratore, il chimico Humphry Davy, riuscirono a trovare un modo per arrestare l’azione della luce sui sali d’argento: a meno che non fossero tenuti al buio (o al massimo osservati alla fioca luce di una candela), il dipinto veniva completamente cancellato. I loro primi esperimenti dimostrarono, tuttavia, che era possibile trasferire chimicamente per mezzo della luce non solo immagini ma anche il profilo di oggetti come foglie e tessuti. Thomas Wedgwood non poté perfezionare la sua scoperta nonostante fosse sulla giusta strada in quanto gravemente malato.